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l’editoriale

di Assuntina Morresi*

La regolamentazione dell’aborto in Italia con la legge 194 del 1978, e il referendum che l’ha confermata nell’81, sono state ferite laceranti nella nostra società: dopo più di 40 anni non riescono ancora a rimarginarsi e probabilmente non guariranno mai. è vero che si tratta di una piaga che da sempre ha accompagnato l’umanità, come ci fa capire l’antico giuramento di Ippocrate; che però vietava ai medici di procurare l’aborto, giudicato un male da evitare al pari della soppressione di altre vite umane.

La sua legalizzazione nel secolo scorso, in Italia e in Occidente, ne ha mutato la percezione generale: secondo la vulgata dominante è un diritto delle donne e riguarda solo ciascuna di loro, nonostante la 194 dica qualcosa di diverso. Secondo la legge, infatti, l’aborto dovrebbe essere un’opzione residuale, tanto da prevedere che le istituzioni competenti nei confronti della donna incinta abbiano il compito di esaminare “le possibili soluzioni dei problemi proposti, di aiutarla a rimuovere le cause che la porterebbero alla interruzione della gravidanza, di metterla in grado di far valere i suoi diritti di lavoratrice e di madre, di promuovere ogni opportuno intervento atto a sostenere la donna, offrendole tutti gli aiuti necessari sia durante la gravidanza sia dopo il parto”. Ma sappiamo bene che questo passaggio della norma è stato solo raramente applicato dalle istituzioni.

Sappiamo invece che in questi anni sono state associazioni di volontariato come il Movimento per la vita (Mpv) e i Centri di aiuto alla vita (Cav) ad attuare questa parte della 194: nella sola Umbria, la loro presenza ha consentito a 664 donne di diventare mamme. è una situazione paradossale, perché Mpv e Cav si sono trovati a essere le uniche realtà ad applicare una parte di una legge che pure ritengono integralmente iniqua. Ma è molto difficile per i volontari interagire con le istituzioni competenti, cioè con il Servizio sanitario nazionale e i Servizi sociali: ogni volta che si tenta di avviare una collaborazione per sostenere le gravidanze difficili, anche se prevista per legge (art. 2, comma d), si materializza un muro ideologico invalicabile, e invariabilmente parte l’accusa nei confronti dei volontari di voler privare le donne del “diritto” di abortire. Come se sostenere una donna incinta in difficoltà - una donna che liberamente chiede di essere sostenuta fosse un attentato alla sua libertà personale. Perché non riconoscere, invece, il fallimento dello Stato, quando offre l’aborto come unico percorso stabilito con certezza per una gravidanza difficile? Le polemiche in questo ambito appaiono ancora più insensate alla luce del previsto, ormai irrimediabile crollo demografico dei prossimi anni, già messo in conto ma accelerato dalle incertezze e paure portate dal Covid-19.

Crediamo sia venuto il tempo di voltare pagina. Perché non avviare in Regione una politica bipartisan, maggioranza e opposizione insieme, una volta tanto? Perché non istituire un Fondo appositamente dedicato alle donne che si trovano ad affrontare una gravidanza difficile? Perché non dare loro l’opportunità di diventare mamme? Il Mpv e i Cav sono pronti a collaborare. * presidente del Mpv Umbria

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