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Mons. Paolucci, un “sacerdote credente”

In questi anni trascorsi ad Ancona, il nuovo Pastore di Gubbio ha “messo a frutto i suoi doni, la sua preparazione, le sue conoscenze, la sua capacità di psicologo attraverso una relazione facile con tutti”

È stato il suo vescovo per molti anni e lo conosce bene. Parla di lui con affetto, come di un padre che saluta il figlio divenuto ormai grande che lascia la casa paterna per diventare a sua volta padre di una nuova famiglia.

Il card. Edoardo Menichelli , vescovo emerito di Ancona, in poche parole ci dice chi è il nuovo vescovo di Gubbio mons. Luciano Paolucci Bedini. Annunciare la sua nomina è stato, peraltro, l’ultimo atto del card. Menichelli al momento di lasciare - per raggiunti limiti di età - la guida della diocesi marchigiana. Prima di chiudere l’intervista, una raccomandazione: “Ne approfitto per dire a lei e ai vostri lettori: pregate per i vescovi, pregate per i sacerdoti, e custodite la loro vocazione e il loro servizio!”.

Eminenza, come descriverebbe in poche parole mons. Luciano Paolucci Bedini?

“La sua età già dice qualcosa. Sono certo che all’età giovanile corrisponda anche una grande maturità e una grande responsabilità. È una figura (non si meravigli di quello che dico) di sacerdote credente, che ama la Chiesa, che è capace di dialogo e di offrire speranza a tutte le persone che sarà capace di incontrare”.

Questo deriva anche dall’esperienza di mons. Bedini come rettore del Seminario… “Sì, ha esercitato questo ministero di formatore, di educatore delle nuove generazioni di sacerdoti nelle Marche, e lo ha fatto mettendo a frutto i suoi doni, la sua preparazione, le sue conoscenze, la sua capacità di psicologo attraverso una relazione facile con tutti, e in modo particolare con questi ragazzi, con i quali ha stabilito un rapporto di paternità, di confidenza; il che non gli ha impedito di essere anche educatore coraggioso e forte. Di questo sono profondamente consapevole. Ha saputo esercitare questo ministero che ha bisogno di sapienza, che ha bisogno di testimonianza; l’ha esercitato veramente con spirito sereno e con un senso ecclesiale molto forte. Quello che conta e che ha contato per lui è stato portare i ragazzi alla comprensione della vocazione, alla scoperta vera della vocazione e soprattutto immettersi dentro uno spirito, una mentalità ecclesiale di cui oggi c’è tanto bisogno”.

Anche lei è stato arcivescovo, oggi è cardinale, quindi ben sa cosa significa avere la responsabilità di una diocesi. Quali sono le doti che dovrà coltivare questo nuovo vescovo?

“Credo che ci sia una parola che sta alla base del complesso delle cose richieste a un vescovo. È la parola che Papa Francesco usa spesso e ci ha richiamato spesso. A me basta che lui (e sono convinto che lo farà, che lo potrà fare) sia un Pastore .

Ecco, adesso uso l’espressione di Papa Francesco, questo famoso ‘odore’ del popolo, il Papa dice ‘delle pecore’. Credo che nella parola ‘Pastore’ (del resto è evangelicamente significativa, Gesù è il Buon Pastore) ci sia la somma delle qualità e delle virtù, delle qualità umane e spirituali e delle virtù che un vescovo deve avere ed esercitare. Credo che don Luciano questo lo possa fare. Ha quel bagaglio umano, spirituale e di grazia per poter realizzare questo compito di essere Pastore: nella vicinanza, attraverso una terapia della tenerezza, attraverso una testimonianza alta di fede, attraverso una preghiera alta di padre che accoglie i suoi figli, li conosce e li presenta a Dio padre misericordioso”.

Cosa augurerebbe a don Luciano?

“Di essere se stesso: un vescovo non deve mai camuffarsi. Anche lui deve sapere che è un perdonato da Dio e un redento dalla croce di Cristo, un salvato dalla croce di Cristo. Allora un vescovo che è uomo che è capace di umanità, che sa di essere parte viva della famiglia di peccatori, e contemporaneamente della famiglia dei redenti. Dentro questa storia personale credo che poi ci sia tutto il ministero da compiere, senza altezzosità, senza supremazie. Faccio un augurio a don Luciano, un augurio che prendo da un ricordo del Seminario. Un professore di Sacra Scrittura che si chiamava don Guido Berardi nello spiegarci la Parola di Dio una volta si soffermò, scuotendo anche le nostre coscienze, con un’espressione un po’ curiosa, e ci domandò: qual è la differenza fra un cristiano credente e un non credente? - Io posso cambiarla dicendo: qual è la caratteristica di un buon vescovo, di un santo vescovo, da un’alta figura di vescovo? - E noi così, abituati un po’ a pensare le cose alte, non sapevamo rispondere. E lui ci disse: ‘La differenza sta in una ‘i’ o una ‘e’. E il nostro cervello andò in crisi, finché lui non ci disse apertamente, prendendo in mano il Vangelo: ministrare sì, ministrari no! Sarebbe a dire: servire sì, essere serviti no!”.

Don Luciano andrà a guidare un popolo, ma viene anche affidato a un popolo. Al popolo di Gubbio e a tutta la sua diocesi che cosa raccomanderebbe?

“Quello che io ho sperimentato come vescovo, e cioè la vicinanza di un popolo. È ovvio che questo è un intreccio, lo chiamerei anche un ‘intreccio sponsale’. Lei sa che tra il vescovo e la Chiesa che il Signore gli ha affidato attraverso la volontà del Santo Padre, si stabilisce uno sposalizio. L’anello che il vescovo porta non è un’ostensione di potere o di stupida sacralità. L’anello che il vescovo porta è il segno dello sposalizio. Allora, la logica dello sposalizio lo tocca profondamente così come tocca il popolo, la Chiesa che è unita a lui. Ci deve essere un intreccio di amabilità, un intreccio di preghiera, di pazienza reciproca e di quell’atteggiamento di vicinanza che stempera ogni cosa, e che ti porta nella dimensione più propria e più comprensibile e più amabile, sia da parte del popolo sia da parte del vescovo stesso. Poi so della tradizione spirituale, cristiana, del popolo eugubino, e credo che questo sarà di consolazione e d’aiuto a questo popolo. Però, come giustamente diceva lei, c’è questo reciproco affidamento. Se il vescovo non si affida al popolo, è un isolato. E se un popolo non si affida al vescovo, è un gregge disperso, un gregge senza identità, un gregge che vive nel pericolo di quei famosi assalti (in questo caso mi riferisco a fatti culturali, a fatti spirituali, a povertà interiori che ognuno di noi e ogni popolo possiede). Ci dev’essere questo reciproco affidamento: io sono affidato a voi e voi siete affidati a me. C’è una storia comune di comunità, una compagnia vera che si deve stabilire, e credo che tutto questo potrà realizzarsi, conoscendo don Luciano; e potrà realizzarsi, conoscendo la storia spirituale del vostro nobile popolo”.

Maria Rita Valli

Il card. Menichelli il giorno dell’annuncio della nomina

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