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l’editoriale

di Assuntina Morresi

Nel bellissimo messaggio per la 43a Giornata nazionale per la vita, che si terrà il prossimo 7 febbraio, i nostri vescovi del Consiglio permanente Cei si e ci interrogano su quella che possiamo ben definire “ la questione” per eccellenza, cioè il significato della libertà, di quel dono di Dio che segna la nostra specie umana. Libertà e vita binomio inscindibile, tenuto insieme dalla responsabilità, senza la quale “libertà e vita sono destinate a entrare in conflitto fra loro; rimangono, comunque, incapaci di esprimersi pienamente”. Una libertà che, se vissuta individualisticamente, “diventa chiusura e violenza nei confronti dell’altro”, “porta a strumentalizzare e a rompere le relazioni”, e quindi tradisce la sua prospettiva, che invece è essere “a servizio della vita”, di ogni vita umana. Una libertà il cui pieno esercizio “richiede la Verità”. Una riflessione tanto lineare quanto intensa, al tempo stesso, e ancor più preziosa in questo tempo di pandemia, ora che – osservano i vescovi – ci siamo resi conto di quanto pesino le limitazioni alle libertà personali, e di quanto invece siano preziosi quei gesti di solidarietà e di vicinanza reciproca con cui si cerca di affrontare l’emergenza. La Giornata per la vita non poteva cogliere meglio la drammatica novità portata dalla pandemia, un evento epocale che ci è toccato vivere, un contagio planetario di cui le relazioni umane sono la prima causa di diffusione ma, paradossalmente, anche la soluzione, l’unica possibilità di uscirne tutti.

Libertà, vita, responsabilità e verità: parole chiave del messaggio dei vescovi italiani che ritroviamo esemplificate nella storia di Giovanni e della sua famiglia, di cui abbiamo letto anche sulle colonne di questo giornale. Giovanni ha vissuto dieci giorni insieme ad Alice ed Enrico, i suoi genitori, e a suo fratellino Gioele. Aveva una malattia rara, di quelle incompatibili con la vita. Alice ed Enrico lo hanno accolto così com’era, aspettandolo con quell’intreccio di amore e dolore profondi di cui solo un padre e una madre possono fare esperienza.

Il loro racconto è drammatico ma mai disperato, sincero quando dicono che fino all’ultimo hanno sperato in un esito diverso, un finale impossibile; un racconto soprattutto pervaso da una grande, se pur molto sofferta, serenità. Alice ha portato avanti la sua gravidanza con Enrico accanto, nella consapevolezza della gravità della diagnosi del bambino che stava per nascere; insieme hanno spiegato a Gioele che sarebbe arrivato un fratellino speciale, “un supereroe che doveva lavorare dal Cielo”, e che sarebbe restato con loro per poco. E sembra surreale, così lontano da una apparente razionalità quel voler stare insieme al piccolo Giovanni il più tempo possibile, a casa, fuori dall’ospedale. Una presenza che secondo la mentalità corrente non può dare niente se una enorme e insensata sofferenza; così profondamente umana, invece, quella sua breve, misteriosa compagnia, di cui Alice ed Enrico hanno detto: “dieci giorni o cento anni hanno lo stesso valore, ciò che conta veramente è come si spende quel tempo che ci è stato donato”, dicendo in altre parole l’intuizione del poeta francese Paul Claudel: “Dio non è venuto a spiegare la sofferenza, è venuto a riempirla della Sua presenza”.

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