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“Un beneficio per pazienti e congiunti”

“ È sempre difficile e penoso per un familiare accettare la morte di un padre, di una madre o di un proprio congiunto. E lo è ancora di più quando non gli è stato permesso di vederlo un’ultima volta”. La dottoressa Ada Vecchiarelli, romana di origine, perugina di adozione, medico rianimatore da quasi trent’anni presso l’Unità di Terapia intensiva 2 dell’Ospedale Santa Maria della Misericordia di Perugia, di momenti così ne ha vissuti tanti da quando quasi un anno fa il Covid è arrivato anche nella nostra regione. Ricorda molto bene quando, “forse era novembre, ho chiamato al telefono il figlio di un uomo ricoverato da poche ore, per dirgli che probabilmente suo padre non ce l’avrebbe fatta. Un modo per aiutarlo a prepararsi all’evento. Quando poco dopo gli ho ritelefonato per comunicargli la morte, è rimasto ammutolito. Mi ha chiesto solo se potevo rimanere un po’ con lui a parlare al telefono. Non mi era mai capitato! commenta stupita - e mentre parlavo, cercando di capire chi c’era con lui, facendogli delle domande in attesa di una sua reazione, l’uomo è rimasto sempre in silenzio, non riusciva a parlare”. Così come non dimenticherà mai il caso di un papà di appena 29 anni, con cinque figli, rimasto a lungo ricoverato, “ma fortunatamente si è completamente ripreso”.

Momenti difficili, “a cui non ci si abitua mai”, commenta la dott.sa Vecchiarelli, ed è per questo che non è rimasta sorpresa della proposta avanzata dal Movimento per la vita e dall’Associazione medici cattolici di Perugia, di cui fa parte, di permettere ai familiari di malati Covid di entrare nella terapia intensiva per vedere il proprio caro. “In reparto, tra colleghi, era un problema che ci eravamo posti” aggiunge, sottolinenando che in tempi normali “già permettevamo ai familiari, secondo certe regole, di entrare. Per il familiare è una grande consolazione, e se il paziente è cosciente il beneficio è per entrambi” mentre il fatto che oggi non sia possibile a causa del Covid “è un grande dolore per tutti”. Gli unici a tenere i contatti con i familiari sono loro, e racconta che se il paziente non è sotto ventilazione intensiva ed è vigile lo aiutano a parlare al cellulare o a fare videochiamate con il tablet, se invece è sedato sono loro a parlare con il parente e in caso di morte a comunicarlo alla famiglia, cercando le parole giuste. “Nessuno è mai preparato alla morte di un familiare soprattutto in questo modo”, commenta con un sospiro.

In questi mesi le giornate in reparto sono sempre molto impegnative, soprattutto la mattina – racconta. Si comincia con il “rito della vestizione”, molto importante come quello della svestizione, che lo è ancora di più - spiega. Tra analisi, terapie, nursing (l’igiene personale del paziente) e controllo dei macchinari, da cui dipende la vita dei pazienti capita anche di scambiare una parola con i pazienti più vigili “che ci riconoscono dal timbro della voce.

Cerchiamo di incoraggiarli, quando è possibile anche di instaurare un minimo rapporto. Non è facile per loro”.

L’Unità di terapia intensiva (Uti) è presente in genere solo negli ospedali più grandi. Rappresentano dei presidi di sicurezza che devono essere sempre disponibili in casi di emergenza per supportare le funzioni vitali dei ricoverati in condizioni critiche. Prima del Covid all’ospedale di Perugia c’era una sola Unità di terapia intensiva (Uti 2), con 13 posti letto seguiti da dodici persone tra medici, infermieri e Os che nello stesso tempo devono gestire anche l’emergenza intraospedaliera. “Per sopperire all’emergenza Covid è stata creata un’altra Uti dove una decina di anni fa c’era una vecchia terapia intensiva: si apre e si chiude in base alle necessità, i posti letto sono sei, ma possono diventare 10” spiega la dott.ssa Vecchiarelli. C’è poi la Tipoc (terapia intensiva postcardiochirurgica) che “normalmente accoglie pazienti della cardiochirurgia, ma in questa emergenza ha gestito e gestisce malati da terapia intensiva non Covid”. “In Uti al paziente viene garantito un monitoraggio costante dei parametri vitali, quali ad esempio la respirazione e la circolazione, - spiega – e questo grazie alla presenza 24 ore su 24, 7 giorni su 7, di medici (rianimatori e anestetisti), infermieri, Oss e anche del fisioterapista. Si tratta di personale specialistico – sottolinea - con il quale, spesso supplendo con turni più lunghi, anche di 12 ore, siamo riusciti a gestire l’emergenza in questi mesi”. Evitare il contagio è estremamente importante - sottolinea la dottoressa Vecchiarelli - perché ci si può ammalare e si può rischiare di morire a ogni età, anche senza patologie pregresse”.

Dottoressa, lei ha mai avuto paura? “No, e non l’ho mai avuta neanche nei momenti più difficili. Solo tanta stanchezza. Se stiamo attenti riusciremo a uscirne”.

Manuela Acito

La dottoressa Ada Vecchiarelli nel reparto di terapia intensiva a Perugia

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